COME MOSCHE NEL MIELE

Come mosche nel miele è un memoir e un autofiction di formazione in prima persona. Narra una storia di dipendenza dal punto di vista della protagonista, un’adolescente che va lentamente e inesorabilmente incontro alla vita di strada e all’eroina.
Sullo sfondo, una Milano spietata dove tutto è a portata di mano, anche la morte: basta chiamarla. Un racconto lucido sulla ricerca spasmodica d’identità e sul desiderio di sparire, di autodistruggersi, per smettere di “sentire tutto così forte” e, finalmente, lenire la mente e i pensieri ossessivi.
Un romanzo il cui tentativo è quello di immergere il lettore in una cronaca spietata, quasi documentaristica, trascinandolo in un mondo di difficile comprensione per sospendere, almeno per la durata della lettura, ogni giudizio.
Nel 2020, COME MOSCHE NEL MIELE è tra i sei finalisti del Premio Wondy dedicato alla memoria di Francesca Del Rosso, insieme con il vincitore Andrea Pomella (L’uomo che trema), Claudia Durastanti (La straniera), Silvia Dai Pra (Senza salutare nessuno), Leo Ortolani (Cinzia) e Ilaria Tuti (Ninfa dormiente). Come mosche nel miele, unica opera prima in concorso, si aggiudica il quarto posto.

Nel 2019 si classifica nella terzina vincente del PREMIO SEVERINO CESARI Opera Prima presso Umbria Libri, con una giuria d’eccezione composta da Simona Vinci, Luca Briasco, Pietrangelo Buttafuoco, Giancarlo De Cataldo, Concita De Gregorio, Luca Gatti, Gabriella Mecucci, Francesca Montesperelli, Giacomo Papi e Michele Rossi.

 

Anni Novanta. In una Milano sporca e periferica, la giovanissima Francesca, mossa dalla voglia di trovare una propria identità, si lascia trascinare dalla musica, dall’alcol, dalle droghe. Entra in contatto e diviene parte integrante del Gruppo, una fluida rete fatta di personaggi borderline, tossici, scappati di casa, matti. Personaggi al limite in bilico fra l’amore per la vita e il desiderio di autodistruzione.

“Credo che Come mosche nel miele sia un caso singolare nel panorama editoriale italiano odierno: questa è infatti, seppur un po’ romanzata, un’autobiografia. Mai avevo letto un libro dai contenuti così forti e sconvolgenti in cui l’autrice, con uno stile secco e diretto si spoglia, si mette completamente al servizio della sua scrittura. È un libro dalla disarmante sincerità che è pure meglio di tutti gli altri prodotti affini per argomento che la lettura mi ha suggerito: Trainspotting e I ragazzi dello zoo di Berlino sono i collegamenti facili; film di Claudio Calligari e il recente Anni Luce di Andrea Pomella (che tra l’altro ho letto poche settimane fa) quelli un po’ più ricercati. ” – Giovanni Belcuore @il.recensore.ignorante –

 

“Si susseguono gli odori nella scrittura “fisica” di Tassini: sullo sfondo resta sempre un profumo d’infanzia che s’insinua nei racconti sporchi di fango e sangue, di catrame, urina e vodka. Un’infanzia che si vergogna dei suoi diritti, nascosti dietro sbronze precoci. Rinascere non significa solo riprendere possesso del proprio corpo dopo l’anestesia dei sensi, dopo l’avidità di autolesionismo. E’ accettare la paura senza più provare a ucciderla. Senza più lasciarsi uccidere.”  LA LETTURA, 27 gennaio 2019.

COMPRA SU AMAZON
COMPRA SU IBS
COMPRA SU FELTRINELLI

 

INTERVISTA SU PERIMETRO

Nel tuo libro “Come mosche nel Miele” (Solferino Libri) parli di una Milano anni ’90 selvaggia e incerta. Cosa ti aspettavi allora da lei e come pensi sia cambiata oggi?

La Milano dei primi anni ‘90 era poco abituata ai complimenti e all’attenzione che riceve oggi. Era una città dura e a tratti inospitale, ma anche viva, vibrante e autentica. In “Come mosche nel miele” è una vera e propria protagonista che cela nei suoi recessi i personaggi di una storia generazionale (oltre che intima) di autodistruzione nel suo divenire, di crescita e di riscatto. Cosa mi aspettavo in quegli anni da Milano è esattamente ciò che lei mi ha dato: è stata il pusher con la caramella. Mi ha offerto tutto ciò che cercavo su un piatto d’argento e, quando lo desideravo, mi ha nascosta, facendomi annusare un senso di libertà assoluto che ha finito per stritolarmi. In un certo senso il romanzo è anche un ritratto di quei tempi liquidi, a un passo dall’avvento delle tecnologie smart, protesi di noi stessi, che tanto ci hanno dato e tantissimo ci hanno tolto.

Oggi Milano è un’altra città: la sporcizia è stata ben nascosta sotto il tappeto e la vitalità di cui parlavo prima si è organizzata, facendo nascere realtà anche molto interessanti.

Cosa ti ha spinto a scrivere la tua storia e quella della Milano di allora?

Mentre scrivevo, ho pensato a come avrei potuto raccontare la mia esperienza passata di dipendenza da sostanze (argomento trito e ritrito da narrativa e cinema) da una prospettiva diversa. Mi sembrava ci fosse una lacuna nelle narrazioni già esistenti: la maggior parte si incentravano su chi c’è già dentro o a un passo, sulla distruzione fisica e mentale, in un susseguirsi di situazioni che a volte sfiorano il morboso. C’era invece meno un racconto sulla nascita del desiderio: crudele e malato, ma pur sempre un desiderio. Molti si chiedono come e perché si cominci: ecco, io ho voluto raccontare proprio questo, la fascinazione perversa dietro il buco, il bisogno di annientamento della mente e dei sensi che si può provare già in tenera età e che poi diventa “scelta” – ma sempre condizionata da problemi preesistenti, non necessariamente evidenti da subito. Ho usato il mio punto di vista di allora, anziché quello della me stessa di oggi, nel tentativo di sollevare il lettore da ogni giudizio e preconcetto, creando un racconto il più immersivo possibile. È un libro che non offre risposte ma che descrive, racconta, quasi come un documentario.

(continua a leggere)

 

INTERVISTA SUL CORRIERE

La ricerca ossessiva di risposte impossibili

«Intorno ai 12 o ai 13 anni ho cominciato a maturare un certo gusto per cose che avevano a che fare col mondo delle droghe», prosegue la sceneggiatrice. «Venivo da un’infanzia normale, ma avevo un modo di vedere il mondo troppo profondo: leggevo articoli che parlavano di situazioni estreme e mi facevo domande a cui non trovavo risposta; non avevo più fiducia in niente, ero delusa dagli adulti. Mi affascinavano film come Arancia meccanica e Natural Born Killers e libri quali Jim entra nel campo di basket di Jim Carroll e I ragazzi dello zoo di Berlino. Avevo una mente iperattiva e sentivo l’esigenza di provare qualcosa di diverso, di fare esperienze estreme: le droghe possono dare l’impressione di essere una potente medicina in questo senso. Il mio desiderio di autodistruzione paradossalmente nasceva da un forte amore per la vita: avevo bisogno di un sedativo. Per uscire da questa situazione ho dovuto prima annientare sensi e corpo; diversamente, nessuno sarebbe stato in grado di fermarmi, di salvarmi».

(continua a leggere)