PERIMETRO
A cura di Sebastiano Leddi
Nel tuo libro “Come mosche nel Miele” (Solferino Libri) parli di una Milano anni ’90 selvaggia e incerta. Cosa ti aspettavi allora da lei e come pensi sia cambiata oggi?
La Milano dei primi anni ‘90 era poco abituata ai complimenti e all’attenzione che riceve oggi. Era una città dura e a tratti inospitale, ma anche viva, vibrante e autentica. In “Come mosche nel miele” è una vera e propria protagonista che cela nei suoi recessi i personaggi di una storia generazionale (oltre che intima) di autodistruzione nel suo divenire, di crescita e di riscatto. Cosa mi aspettavo in quegli anni da Milano è esattamente ciò che lei mi ha dato: è stata il pusher con la caramella. Mi ha offerto tutto ciò che cercavo su un piatto d’argento e, quando lo desideravo, mi ha nascosta, facendomi annusare un senso di libertà assoluto che ha finito per stritolarmi. In un certo senso il romanzo è anche un ritratto di quei tempi liquidi, a un passo dall’avvento delle tecnologie smart, protesi di noi stessi, che tanto ci hanno dato e tantissimo ci hanno tolto.
Oggi Milano è un’altra città: la sporcizia è stata ben nascosta sotto il tappeto e la vitalità di cui parlavo prima si è organizzata, facendo nascere realtà anche molto interessanti.
Cosa ti ha spinto a scrivere la tua storia e quella della Milano di allora?
Mentre scrivevo, ho pensato a come avrei potuto raccontare la mia esperienza passata di dipendenza da sostanze (argomento trito e ritrito da narrativa e cinema) da una prospettiva diversa. Mi sembrava ci fosse una lacuna nelle narrazioni già esistenti: la maggior parte si incentravano su chi c’è già dentro o a un passo, sulla distruzione fisica e mentale, in un susseguirsi di situazioni che a volte sfiorano il morboso. C’era invece meno un racconto sulla nascita del desiderio: crudele e malato, ma pur sempre un desiderio. Molti si chiedono come e perché si cominci: ecco, io ho voluto raccontare proprio questo, la fascinazione perversa dietro il buco, il bisogno di annientamento della mente e dei sensi che si può provare già in tenera età e che poi diventa “scelta” – ma sempre condizionata da problemi preesistenti, non necessariamente evidenti da subito. Ho usato il mio punto di vista di allora, anziché quello della me stessa di oggi, nel tentativo di sollevare il lettore da ogni giudizio e preconcetto, creando un racconto il più immersivo possibile. È un libro che non offre risposte ma che descrive, racconta, quasi come un documentario. (continua a leggere)
CORRIERE
A cura di Andrea Federica De Cesco
«So che sarà complicato da digerire per il lettore, ma quella che ho preso a 15 anni è stata una decisione consapevole». È un romanzo di formazione in prima persona, ispirato a fatti brutali, realmente accaduti, quello con cui esordisce Francesca Tassini. Il libro, che si intitola «Come mosche nel miele» ed esce in libreria per la casa editrice Solferino il 10 gennaio, racconta la Milano degli anni Novanta e la disperata ricerca di una propria identità – attraverso la musica, l’alcol e la droga – da parte della protagonista.
«Intorno ai 12 o ai 13 anni ho cominciato a maturare un certo gusto per cose che avevano a che fare col mondo delle droghe», prosegue la sceneggiatrice. «Venivo da un’infanzia normale, ma avevo un modo di vedere il mondo troppo profondo: leggevo articoli che parlavano di situazioni estreme e mi facevo domande a cui non trovavo risposta; non avevo più fiducia in niente, ero delusa dagli adulti. Mi affascinavano film come Arancia meccanica e Natural Born Killers e libri quali Jim entra nel campo di basket di Jim Carroll e I ragazzi dello zoo di Berlino. Avevo una mente iperattiva e sentivo l’esigenza di provare qualcosa di diverso, di fare esperienze estreme: le droghe possono dare l’impressione di essere una potente medicina in questo senso. Il mio desiderio di autodistruzione paradossalmente nasceva da un forte amore per la vita: avevo bisogno di un sedativo. Per uscire da questa situazione ho dovuto prima annientare sensi e corpo; diversamente, nessuno sarebbe stato in grado di fermarmi, di salvarmi». (continua a leggere)
FUMETTOLOGICA
A cura di Antonio Dini
Hai fatto anche altre cose rispetto a libri e tv, ma ne parliamo tra un attimo. Invece, com’è passare dalla tua precedente vita di sceneggiatrice a quella di romanziera, poi di autrice seriale e poi essere coinvolta in progetti per le serie tv?
Non so se parlerei di “passaggio”, piuttosto è una convivenza. Per me scrivere è, prima ancora che una professione, una necessità. È da sempre il mio modo per esprimere le tante me, e in questo la mia storia professionale rispecchia un po’ la mia vita. Non faccio troppa fatica a passare da un media a un altro, anzi: i due elementi si arricchiscono e condizionano a vicenda. Lo stesso vale per generi e target: esplorarne di diversi mi permette, fra le altre cose, di vedere quanto di mio possa infilare dentro i diversi progetti e come.
Per esempio ho notato a posteriori che nella mia produzione alcuni argomenti, temi e luoghi ritornano, declinati diversamente a seconda della storia e del medium: l’adolescenza e il distacco dal mondo “magico” dell’infanzia, la città come macro-organismo avvolgente e respingente, la ricerca identitaria anche in condizioni di frammentarietà, le rappresentazioni mentali che formano la realtà di ciascuno.
Per uno scrittore o una scrittrice, cambiare genere o target è una scelta più complessa rispetto al mantenerne uno. Ma preferisco sentirmi svincolata dalle etichette e spero di avere sempre la fortuna e la libertà di incontrare chi ci crede e mi permette di continuare a farlo. Come autori non bisognerebbe aver paura di sperimentare, piuttosto di perdere contatto con la nostra verità essenziale, quel nucleo profondo risultato di combinazioni, esperienze e modi di sentire che fa di ognuno di noi ciò che è. (continua a leggere)
SONO SOLO LIBRI
A cura di Ambra @sonosololibri
Bellissimo, violento, emozionante, duro. Brillante e tostissimo, Come mosche nel mieleè un romanzo di formazione in parte autobiografico che racconta il cuore di tenebra di una generazione. Sono gli anni ’90 e Francesca, alla ricerca di un’identità, si tuffa nei bassifondi di quella Milano underground che nessuno vuole vedere e raccontare. La Milano dei capannoni abbandonati, dei rave, di Parco Sempione e dei campi dello spaccio dove, tra la torrida canicola estiva e la pungente nebbia invernale, si muovono i gruppi degli ultimi: scartati, emarginati, punk, anarchici, scappati di casa, matti.
L’autrice ci accompagna in un flusso di memoria in cui ricordi, facce, suoni e avvenimenti si mischiano in un racconto lisergico fatto di musica, alcool, droghe, amicizia, amore, paura.
Un percorso guidato da quell’urgenza di mordere tutto, di divorare quello che il mondo ha da offrire, di mischiarsi con cose e persone, nel bene e nel male. Quell’innamoramento e disinnamoramento continuo di tutti e di tutto nell’affannosa ricerca della vita e dell’autodeterminazione nei posti sbagliati, sempre più avanti, sempre più in basso, dove tutto si capovolge e l’ultimo diventa primo.
I punk, le case occupate, i primi acidi, l’alcool, la cocaina, e poi a 15 anni il primo buco, anelato come fosse l’obiettivo ultimo di una vita votata all’autodistruzione. Tutto accade in tempi brevissimi che, nella realtà dilatata di un’adolescenza “malata”, si fanno eoni. “Una vita fa. Qualche mese prima“. E intanto gli amici iniziano a cadere.
Le droghe che annebbiano la mente sono anche quelle che fiaccano il corpo, un corpo che diviene ogni giorno più fragile, anoressico, che si sbatte tra le notti senza sonno passate sempre più spesso all’addiaccio e i giorni monopolizzati da un’unico pensiero, un corpo bisognoso di cure ma allo stesso tempo sempre più isolato da tutti. Le botte sono sempre più forti, i risvegli ogni giorno più traumatici. La vita normale, la famiglia, la scuola, si sfuocano sullo sfondo mentre “smetto quando voglio” diventa solo un’altra bugia detta agli altri e a se stessi.
Eravamo nudi uno di fronte all’altro, eppure tanto incasinati da non poter fare niente per nessuno all’infuori di noi stessi. Semmai.
Quello di Francesca Tassini è un romanzo straordinario, che si potrebbe accomunare per tematiche a I ragazzi dello Zoo di Belino o aLa scimmia sulla schiena (di cui avevo parlato QUI), ma che porta dentro di sé una potenza deflagrante. Al contrario di tutto quello che avevo letto finora sulle droghe, qui non c’è niente di patetico, né autocommiserazione. C’è solo una forte voglia di raccontarsi, forse di elaborare un buco oscuro rimasto dentro, forse di dire che farcela si può e di dare un ultimo saluto a chi invece non ce l’ha fatta.
Con un lessico strepitoso, cangiante, pregno di sfumature, capace di descrivere l’indescrivibile, Francesca si mette a nudo, utilizza il romanzo per raccontare una parte di sè stessa, scomoda e dolorosa, un percorso deprecabile, forse inspiegabile ad occhi esterni, che si offre al lettore in una violenta e disarmante sincerità. Senza scusarsi, senza compiangersi nè compiacersi.
Un libro sincero, a suo modo pieno di vita, commovente e unico nel suo genere, che mi ha trascinata nel baratro, mi ha fatta sorridere e piangere, che ho sentito mio come se fossi stata lì.