TRASPARENTE

TRASPARENTE è un racconto GOTICO PER ADULTI E RAGAZZI pubblicato nel 2012 da Nobook.
“Un bambino nasce con la pelle talmente sottile da mostrare il suo “di dentro”. Non c’è soluzione, se non allenarsi a non provare più niente attraverso una serie di esercizi quasi militareschi, talvolta crudeli. Fino a diventare insensibile, anzi, di cemento.”

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Eugenio era il suo nome, ma nel villaggio tutti lo chiamavano: il bambino trasparente. Era nato con la pelle talmente diafana, spessa non più di un foglio di carta velina, che si potevano vedere chiaramente organi, vene e venuzze, articolazioni, muscoli e ossicini del suo corpo. Inutile dire che il piccolo Eugenio suscitava moti di disgusto più o meno malcelati in chiunque lo incontrasse. I genitori, dopo i primi mesi di accorata repulsione, l’avevano pian piano accettato, ricoprendolo di giocattoli di ogni tipo e costruendogli una grande camera colorata in cui potesse stare chiuso per ore, lontano dai loro sguardi.

Invano avevano tentato consulti medici, terapie, sedute di psicanalisi dall’età di due anni: Eugenio era questo, un bambino trasparente che amava le bevande gassate e i pesci rossi comprati al luna park. Talvolta ne inghiottiva uno, di quei pesciolini color vermiglio, e poi si divertiva a vederli sbattere le code impazzite nel suo stomaco, tondo come una bolla di vetro, finché non morivano. A scuola nessuno si sognava di giocarci assieme o di sedersi accanto a lui, dietro un subdolo divieto delle madri, così che insulti e scherni gli giungevano da lontano, come echi di fantasmi senza volto. Eugenio d’altronde era familiare alla solitudine, ci era nato, non gli sembrava strano sedere in ultima fila o da solo al tavolo della mensa. Soltanto qualche temerario, annoiato dai soliti compagni rivestiti di morbida pelle di bambino, lo usava come cavia per il gioco del dottore. C’erano anche dei vantaggi nell’essere trasparenti: quando Eugenio si ammalava, non c’era bisogno di chiamare lo specialista perché si capiva chiaramente che tipo di morbo, virus o streptococco l’avesse infettato; così, con un semplice sguardo.

Una volta, durante una lezione di Antroposcienze sui metodi agricoli, Eugenio si era infilato su per le narici due piccoli ceci, che si erano ben mimetizzati in mezzo alla flora appiccicaticcia del suo naso a patata. Per giorni, i genitori l’avevano portato dai dottori perché non respirava bene: rantolava, parlava con voce nasale, ma poi, quando si soffiava il naso, sul fazzoletto non restava nulla. Era tappato, certo, per colpa di quei due ceci color caffelatte che gli bloccavano l’ingresso dell’aria, ma chi poteva immaginarlo? Eppoi, come per magia, i due ceci avevano germogliato, le neopiantine voraci si erano scavate un tunnel su nei condotti respiratori fin quasi al cervello, propagandosi in tanti rametti d’un verde acerbo; e quando la fronte del nostro eroe si era ormai trasformata in un giardino botanico in miniatura, la mamma l’aveva messo a testa in giù e pizzicato con il pepe nero, finché, con uno starnuto potente, era schizzato fuori tutto, rami rametti germogli e foglioline comprese.

Insomma, la vita del piccolo Eugenio non era proprio semplice ma almeno non viveva all’età della pietra, dove tutti giravano nudi, contendendosi noci di cocco a colpi di clava. Nel suo secolo, la gente usava i vestiti. Indumenti di tutte le taglie con colori all’ultima moda erano stati inventati per ogni parte del corpo ancor prima che lui nascesse: sciarpe, cappelli, maglie, stivali, guanti e pinocchietti, cosicché Eugenio potesse farne la propria pelle, e nessuno fosse in grado di guardargli attraverso e di carpire i suoi pensieri. L’estate era una vera seccatura: guanti e sciarpe erano impossibili da sopportare, con quel caldo infernale! Ma per fortuna qualcuno aveva inventato le vacanze: la scuola chiudeva e i bambini, inseguiti da mamme nervose, correvano al mare con palloni e secchielli. Eugenio aspettava che l’ultima automobile, stracarica di valigie e di salvagente, sparisse all’orizzonte col suo tubo scoppiettante di aria puzzolente; si spogliava completamente nudo e con urletti di gioia si gettava sul pavimento di marmo, appiattendosi come una sogliola per godere della frescura su ogni centimetro della sua pelle trasparente. Aveva letto sui libri di Fantageografia che esistevano animali simili a lui, meduse giganti con la pelle invisibile che vivevano nelle profondità degli oceani, rettili che cambiavano pelle, lasciando per strada la muta dai colori sgargianti che non andava più di moda per quella stagione pluviale.

Su quei tomi il piccolo Eugenio fantasticava, immaginando un mondo dove ognuno poteva scegliere la propria epidermide ai grandi magazzini. Tutto sommato l’infanzia era scorsa via senza troppi ostacoli, nascosto dietro gli abiti e nella sua cameretta. Ma il tempo delle fantasticherie passava veloce, e, quasi senza accorgersene, Eugenio si svegliò una mattina che aveva tredici anni. Niente fu più come prima. Ogni cosa si fece enorme, incontrollabile. Eugenio si sentiva preda di terribili angosce o gioie lancinanti; quando si trovava in presenza di alcune femmine della sua classe, oppure durante un’interrogazione, la morsa che gli attanagliava lo stomaco era talmente forte che non riusciva più a spiccicare parola, il suo corpo diventava duro come gesso e il sangue prendeva a ribollirgli davanti a tutti. Ogni parte del suo organismo cominciava a lavorare in preda a un vortice incontenibile: il cuore pompava il quadruplo, lo stomaco gli si attorcigliava come quello di una lumaca quando avverte il pericolo, i muscoli si contraevano in preda a spasmi e, in testa, il sangue gli affluiva come un torrente in piena che gira al contrario. Tutti a scuola lo prendevano in giro, e più lo schernivano più lui s’infuriava, imbarazzava, rattristava, e a ognuno di questi sentimenti il suo organismo rispondeva con un colore diverso. Non poteva nascondere nulla: dal rossore del viso la maestra capiva se era preparato per l’interrogazione; i bulli della classe sapevano se aveva paura di loro, anche se lui negava e tentava di atteggiarsi a duro; le ragazzine facevano a turno per stuzzicarlo a più non posso con bacetti e carezze, per capire, dalle reazioni incontrollate dei suoi organi, quale tra loro fosse la sua prediletta, per poi scappare come uno sciame di vespe, ridacchiando.

Eugenio, che intanto si era fatto lungo e secco come un fuscello, con mani e piedi grandi come due vanghe e il naso ancor più a patata di prima, si chiudeva nella sua enorme camera, che intanto aveva decorato a tema “giganti del mare”, e lì trascorreva i suoi pomeriggi, malinconici e opachi. I pensieri gli si aggrovigliavano in testa come nuvole di zucchero filato, in cui i sogni di bambino restavano intrappolati, microscopici insetti nella tela di un ragno. Rannicchiato, con indosso i vestiti dei quali non si sbarazzava più neanche quand’era solo, si chiedeva come mai a lui non successe come nei film, quando un mostro orripilante, buono come il pane ma allontanato da tutti per la sua bruttezza, incontrava una ragazzina cieca, bellissima, bionda, con occhi biancazzurri, che all’improvviso s’innamorava di lui proprio perché non poteva vedere com’era fatto. A me questo non succederà mai, pensava Eugenio. Il mondo è cattivo, le persone hanno la pelle solo perché così è tutto più semplice: non devono preoccuparsi che gli altri gli leggano dentro, che vedano quando sei arrabbiato, deluso, oppure eccitato. Possono mentire, che tanto nessuno se ne accorge. Possono dire che sono forti, che non hanno paura di niente, perché la pelle è la corazza che nasconde il loro sangue che ribolle, il cuore che pompa all’impazzata, la vescica che si riempie di pipì per il terrore! Possono fare i duri davanti alle ragazze, perché quelle non vedono cosa gli succede dentro, quel groviglio di emozioni che ti trasforma lo stomaco in una voliera di uccelli impazziti! Io non potrò mai avere una fidanzata. Nessuna mi vorrà mai toccare. Nessuna mi vorrà neanche guardare…  Tali e tanti erano i pensieri nefasti dell’imberbe Eugenio.

Aveva trascorso i suoi primi tredici anni cercando in tutti i modi di essere simpatico, mite, allegro, per essere accettato da persone alle quali non sarebbe mai piaciuto. Quanto tempo sprecato! E fu così che, giorno dopo giorno, la tristezza si tramutò dapprima in rabbia, e poi in un sentimento cosciente, ragionato, addirittura placido. Eugenio doveva esercitare la mente a non provare più sentimenti, allenare il corpo a restare impassibile di fronte alla rabbia e al dolore, a mimetizzarsi come facevano gli altri con la loro pelle… In fondo, non era proprio la natura a insegnarlo? Le scimmie non avevano forse sviluppato il pelo per proteggersi dal freddo? Le tigri le zanne, con cui attaccare le prede e non morire di fame? I primi dinosauri le ali e le piume per poter volare? Se la natura non gli aveva donato la pelle rosa come agli altri esseri umani, allora si sarebbe inventato un modo per difendersi dal mondo. Così si disse il tredicenne Eugenio. La sera stessa cominciò i suoi Esercizi. Prima, iniziò con la Paura.

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